Maggiori possibilità di sopravvivenza per le donne affette da tumore alle ovaie
Il cancro alle ovaie colpisce circa 5.200 donne ogni anno solo in Italia, con 3mila decessi.
Questo a causa di una diagnosi tardiva. La malattia difatti, nella fase iniziale, è priva si sintomi specifici. Ancora oggi questo è uno dei tumori femminili più difficili da curare.
Questa volta però, nel mondo scientifico, riunito a Parigi al Congresso della Società Europea di Oncologia, trapela un cauto ottimismo.
Nicoletta Colombo, direttore del Programma di Ginecologia Oncologica dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano professore associato all’Università Milano-Bicocca, e Domenica Lorusso, professore associato di Ostetricia e Ginecologia e responsabile della Programmazione di Ricerca Clinica della Fondazione Policlinico Universitario Gemelli di Roma, hanno presentato i dati scientifici dei loro studi.
Per la prima volta non si parla soltanto di un piccolo progresso che fa guadagnare mesi, ma di un vero e proprio prolungamento della sopravvivenza a lungo termine.
Lo studio PAOLA-1 è uno studio di fase tre, che ha valutato l’efficacia e la sicurezza di olaparib in aggiunta a chemioterapia e bevacizumab, come trattamento in prima linea di mantenimento in donne con tumore ovarico sieroso o endometrioide, delle tube di Falloppio o peritoneale, in stadio FIGO III-IV di alto grado, che hanno mostrato risposta completa o parziale al trattamento in prima linea con chemioterapia contenente platino e bevacizumab. Circa Il 70% delle donne con malattia avanzata va incontro a recidiva entro due anni. Il trattamento mirato nel setting di mantenimento di prima linea è fondamentale per aiutarle a vivere più a lungo, ritardando la progressione della malattia. I risultati a cinque anni dello studio PAOLA-1 dimostrano che il 65,5% delle pazienti HRD positive (ovvero positive al deficit di ricombinazione omologa), trattate con questa combinazione ha ridotto il rischio di morte del 38%, confermando ulteriormente il beneficio clinicamente significativo di sopravvivenza a lungo termine. Inoltre, l’aggiunta di olaparib ha portato la sopravvivenza libera da progressione a una media di quasi 4 anni, cioè a 46,8 mesi rispetto a 17,6 con bevacizumab da solo. Le deficienze di ricombinazione omologa (HRD), che definiscono un sottogruppo di carcinoma ovarico, comprendono un’ampia gamma di anormalità genetiche. Come nel caso delle mutazioni BRCA, HRD interferisce con i normali meccanismi cellulari di riparazione del DNA e conferisce sensibilità agli inibitori PARP, compreso olaparib.
Lo studio SOLO-1 anch’esso di fase tre, per la valutazione dell’efficacia e della sicurezza di olaparib in compresse come monoterapia di mantenimento rispetto a placebo, nelle pazienti con nuova diagnosi di carcinoma ovarico avanzato con mutazione BRCA a seguito di chemioterapia a base di platino. Lo studio ha coinvolto 391 pazienti con mutazione BRCA1 o BRCA2 in risposta clinica completa o parziale a seguito di chemioterapia a base di platino. Le pazienti sono state randomizzate a ricevere olaparib o placebo fino a due anni o a progressione di malattia (a discrezione dell’oncologo). I risultati a lungo termine dello studio SOLO-1, nel carcinoma ovarico avanzato con mutazione BRCA, confermano che Olaparib ha ridotto il rischio di morte del 45% e, a sette anni, il 67% delle donne era vivo rispetto al 47% con placebo. Inoltre, il tempo medio alla prima terapia successiva era di 64 mesi con olaparib rispetto a 15,1 mesi con placebo. Questi dati permettono di affermare che oggi, per alcune pazienti con tumore ovarico avanzato, la guarigione è possibile.
Ancora una volta i ricercatori italiani hanno dimostrato di essere all’avanguardia.
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Fonte: www.corriere.it/salute